Rispetto alla categoria diagnostica dell’autismo, due sono i cambiamenti fondamentali:
NEI CRITERI DIAGNOSTICI…
Si passa da tre criteri diagnostici (1. Alterazioni qualitative nell’interazione sociale, 2. Alterazioni qualitative nella comunicazione, 3. Comportamenti, interessi, attività ristretti, ripetitivi e stereotipati) a due (1. Disfunzioni nella comunicazione sociale, 2. Comportamenti, interessi, attività ristretti, ripetitivi e stereotipati). Le difficoltà relative all’interazione sociale e quelle relative alla comunicazione sono state dunque inserite in una categoria unica.
…E NEI SOTTOTIPI
Le diverse condizioni patologiche prima raggruppate sotto il cappello “Disturbi generalizzati (o pervasivi) dello sviluppo”, ossia autismo “classico”, sindrome di Asperger, sindrome di Rett, disturbo disintegrativo dello svilippo e disturbo generalizzato non altrimenti specificato (o autismo atipico), non esistono più: esiste ora un’unica etichetta, i Disturbi dello spettro autistico, senza alcuna differenziazione al suo interno. E’ stata invece inserita una differenziazione in base ai livelli di gravità (lieve, medio, severo), definiti a seconda del livello di supporto necessario.
E nei fatti, cosa cambia?
IN BENE…
Personalmente ritengo che l’accorpamento dei criteri relativi all’interazione sociale e alla comunicazione sia positiva: pone l’accento sul fatto che non è l’assenza o il ritardo del linguaggio in sé a orientare verso la diagnosi, bensì le difficoltà nell’utilizzo di esso a fini sociali. Per quanto questo principio valesse già in precedenza, ora è ancora più chiaro che i ritardi nel linguaggio in sé non sono significativi per la diagnosi di autismo, e che anche l’assenza di linguaggio, se compensata da modalità di comunicazione non verbali, è suggestiva di altre problematiche. Utile anche il fatto che debbano essere soddisfatti un numero maggiore di criteri nelle due aree (comunicazione sociale da un lato, comportamenti – interessi – attività dall’altro), cosa che rende maggiormente specifica la diagnosi. Due aspetti interessanti: il riferimento al fatto che tra le relazioni sociali “anomale” siano escluse quelle con genitori e caregiver dà risalto a quelle situazioni (vedi autismo ad alto funzionamento) in cui esse sono conservate, ma comunque una difficoltà di fondo c’è. Tra i criteri si fa inoltre specifico riferimento all’anomala reattività rispetto agli stimoli ambientali (es. iper o ipo-reattività agli stimoli sensoriali), caratteristica tipica della sindrome.
…E IN MALE
Dalla mia esperienza con persone autistiche mi sembra impossibile che le diverse forme di autismo non esistano più e siano state raggruppate in un’unica categoria. Un adolescente con una forma di autismo cosiddetta “a basso funzionamento”, con ritardo mentale importante, mancanza del linguaggio parlato, difficoltà nel controllo sfinterico, e uno con sindrome di Asperger sono persone dalle caratteristiche profondamente differenti, con fragilità e bisogni peculiari. Ho l’impressione che questo “uniformare” sia poco rappresentativo della molteplicità di situazioni che si celano dietro alla parola “autismo”. Ben più preoccupante è il pensiero che, come riportato da diversi studi, questi nuovi criteri portino a una netta diminuzione delle diagnosi. Cosa succederà al ragazzo con sindrome di Asperger, che fino a ieri soddisfava i criteri per ottenere l’”etichetta” – cosa che nessun genitore si augurerebbe per il proprio figlio, ma che in presenza di difficoltà comunque evidenti consentiva quanto meno l’accesso ai servizi e a una serie di misure volte a favorire la massima qualità di vita e autonomia possibili? Una simile situazione mi fa pensare ai racconti che molti genitori di ragazzi disabili fanno quando i figli raggiungono la maggiore età: scenari tragicomici di riconvocazione in commissione Asl, per verificare se la diagnosi sia ancora valida, dimenticandosi che condizioni come la sindrome di Down – per fare un esempio – non sono “malattie” che vanno e vengono ma modi di essere della persona, che in quanto tali la caratterizzano ovviamente per tutta la vita! I genitori raccontano di queste scene con l’ironia e il disincanto che solo chi è abituato ad allenare la resilienza sa avere. Ma se pensiamo a ciò che queste scene celano, in termini di ricadute sulla vita delle persone e di chi se ne prende cura, la voglia di sorridere passa immediatamente.
I sostenitori dei criteri diagnostici per l’autismo del DSM-V sottolineano che i cambiamenti sono volti a favorire una maggior comprensione dei sintomi di questa condizione, offrendo ai clinici elementi più specifici per fare diagnosi e dettagli utili per popolazioni specifiche come quella dei bambini più piccoli. Speriamo che, al di là della raffinatezza nella definizione dei criteri, nella pratica essi siano quanto più possibile rispettosi dell’individualità e dei bisogni del singolo paziente.